martedì 29 gennaio 2019

Parla mia paura




In questo libro autobiografico l’autrice ci apre il suo mondo interiore, cadiamo con lei nel pozzo nero delle sue paure. Gli attacchi di ansia e di panico dominano la sua vita per anni, la vediamo mettere in atto strategie di evitamento (automobili, mezzi pubblici, luci, al neon) e rituali ripetuti in modo ossessivo che la portano ad un isolamento pressoché totale e ad avere fantasie di morte: cammina sulla provinciale sperando di essere investita e compie anche un tentativo di impiccagione per fortuna andato a vuoto per il rientro anticipato della sua coinquilina. Decide infine di iniziare un percorso con una psicoanalista durato sette anni, la diagnosi è depressione ansiosa reattiva ed emerge, durante le sedute, il grande peso di un lutto lontano nel tempo, ma che porta con sé un senso di colpa enorme. In coincidenza con la fine di una convivenza durata quattro anni comincia a perdere peso e muta la percezione del suo corpo che non riconosce più come parte del sé. Per cercare di ritrovare un po' di serenità si affida anche ad un chirurgo plastico e per un anno ogni giovedì si reca da lui con il progetto di ridurre il seno, per lei troppo abbondante e che era stato fonte di grande disagio fin dall’adolescenza. Durante l’anno di attesa per l’intervento il chirurgo la pesava ogni settimana attendendo paziente che l’anoressia si stabilizzasse ad un peso accettabile prima di procedere. Era necessaria una riconversione mentale, bisognava che Simona acquisisse una nuova immagine di se stessa prima di effettuare l'intervento chirurgico. Simona soffriva di depressione, era ormai anoressica e aveva una percezione alterata del proprio corpo chiamata dismorfofobia somatopsichica. Simona inizia a stare meglio, accetta il suo nuovo corpo con serenità e la psicoterapia l’aiuta a perdonarsi per la morte del fidanzato, quando però decide di avere un figlio con il nuovo compagno ripiomba nel suo tetro tunnel, la depressione post partum si impossessa di lei senza alcuna pietà. Si sente incatenata agli obblighi dell’accudimento: quel neonato pretendeva la sua attenzione esclusiva, il suo tempo, il suo corpo e tutti i suoi pensieri, con l’aiuto di una tata e il trasferimento dalla montagna alla pianura emiliana la quotidianità migliora. Quando finalmente il bambino (che nel libro non viene mai chiamato per nome) inizia ad esprimersi anche lei vede una luce in fondo al tunnel. La parte finale del libro è quella che ho ritenuto più noiosa: i capitoli dedicati ai giardini e a Venezia mi sono sembrati un po’ interlocutori, ma soprattutto quello dedicato alla storia della psichiatria e ai centri di salute mentale dell’Emila Romagna è apparso ai miei occhi come una inutile conclusione ad un percorso coinvolgente, duro e profondamento vero e onesto. Nel complesso ho apprezzato moltissimo questo libro, mi ha davvero toccato nel profondo e marginalmente mi sono riconosciuta nel vissuto di questa donna e nella consapevolezza che con la depressione si deve imparare a convivere.

giovedì 24 gennaio 2019

Guido Rossa




Guido Rossa nasce a Cesiomaggiore in Veneto, l’alpinismo è la sua passione più grande insieme alla pittura, alle sculture in legno. Durante l’adolescenza si trasferisce a Torino e inizia a lavorare in fabbrica a 14 anni dove grazie alla sua creatività e alla grande manualità riesce ad inventare il chiodo a espansione e costruisce martelli e altri attrezzi da usare per l’arrampicata. Con la famiglia andava sempre in campeggio a Riva Trigoso con una tenda a casetta. Era sempre presente come volontario alle feste dell’unità e proprio in uno di questi eventi aveva portato un taglia patate a forma di falce e martello di sua creazione. Sempre attento ai diritti dei lavorati diventa Delegato nel Consiglio di fabbrica. Dopo il delitto nel suo armadietto vengono ritrovati molti blocchi di appunti in cui per cinque anni aveva annotato ogni singolo evento riguardante l'attività sindacale in fabbrica e ritagli con gli articoli dedicati al terrorismo. Nell’ultimo anno il suo comportamento subisce molti cambiamenti, non accompagna piu’ la figlia a scuola, evita di restare per strada con la moglie e la figlia, mette in atto molte cautele senza però spaventare i suoi familiari, senza confidare a nessuno i suoi timori. Ai colleghi raccomanda di non essere mai abitudinari sia  negli orari degli spostamenti sia nei percorsi, di essere sempre guardinghi e di controllare di non essere seguiti.  Il 25 ottobre 1978 Francesco Berardi viene scoperto mentre diffondeva volantini delle BR, nessuno in fabbrica voleva firmare la denuncia e Guido si offre di farlo pur sapendo quanto questa scelta comportasse dei rischi. Nei giorni successivi trova biglietti di minaccia nell’armadietto della fabbrica e riceve anche telefonate anonime a casa, decide però di tenere la cosa per sè evitando di preoccupare la moglie. Decide infine di acquistare una pistola che per un po’ di tempo porta sempre con sé, fino a quando un giorno uscendo di casa vede un uomo che sembra attenderlo, quindi si prepara a sparare. Quando l’uomo si allontana capisce di essersi sbagliato e dal quel giorno lascia sempre l’arma a casa. Decisione che gli sarà fatale. Il 24 gennaio 1979 Guido Rossa esce di casa molto presto per recarsi al lavoro, si muove veloce guardandosi attorno con circospezione, raggiunge la sua auto, fa appena in tempo a salire quando viene raggiunto da Vincenzo Guagliardo che gli spara attraverso il finestrino quattro colpi alle gambe con la sua 7.65. La vittima cerca inutilmente di difendersi dando dei calci e raccogliendo le braccia per proteggere il petto. Riccardo Dura un altro membro della colonna genovese delle BR spara al cuore di Rossa uccidendolo. Lorenzo Carpi resta alla guida del furgone che ha condotto il commando in via Fracchia. Sua figlia Sabina esce alle 7 circa e passa vicino all’auto del padre, ma non la nota e non si accorge neppure del corpo riverso all’interno. Poco dopo essere entrata in aula viene a prenderla la mamma di una compagna e la riaccompagna a casa spiegandole che il padre ha avuto un incidente. Poi la tragica scoperta. L’omicidio Rossa provoca una lacerazione all’interno delle Br poiché la direzione strategica aveva deciso di ferirlo a titolo di monito per evitare che altri facessero “la spia”. I brigatisti hanno dato interpretazioni diverse alla scelta di Dura di uccidere Rossa: secondo Enrico Fenzi si è trattato di una sua decisione autonoma, secondo Fulvia Miglietta invece Dura è intervenuto perché credeva che Guagliardo avesse problemi con la sua arma. Luca Nicolotti sostiene che Rossa viene visto dalle BR come un vero e proprio traditore e per questo deve essere punito anche per evitare che altri facciano la sua stessa scelta, e che il problema Berardi poteva essere gestito direttamente dal servizio d’ordine del PCI, ma nessuno ha voluto prendersi la responsabilità poi delegata ai Carabinieri che però, per procedere, avevano bisogno che qualcuno firmasse la denuncia e qui entra in gioco Guido Rossa. Concorda con questa visione il generale Nicolò Bozzo secondo cui il responsabile della vigilanza interna dell’Italsider, il capitano dei carabinieri Bonino, avrebbe dovuto informare Dalla Chiesa che era a capo di una unità speciale per il contrasto al terrorismo, invece chiamò il comandante della stazione di Rivarolo, maresciallo Mumolo. Dunque la causa indiretta della morte del sindacalista fu un corto circuito informativo tra le forze dell'ordine, davvero agghiacciante! In merito alla dinamica del delitto Nicolotti afferma che secondo lui non c’è stata premeditazione, ritiene infatti che la decisione di ucciderlo da parte di Riccardo Dura è stata presa d’impulso provocata dalla reazione difensiva di Rossa. Nega infine che all’interno delle BR ci fossero dubbi sulla lealtà di Mario Moretti all’epoca capo della colonna genovese. Un’altra testimonianza importante è di Adriano Duglio infatti grazie a lui si affaccia la possibilità che il commando fosse in realtà composto da quattro uomini e non tre come si è sempre creduto. Si tratterebbe di un pentito della colonna genovese che aveva realizzato l’inchiesta per il delitto perché abitava vicino alla casa della famiglia Rossa. Il brigatista dopo il pentimento sarebbe stato fatto sparire con una nuova identità dai servizi. Secondo Renato Curcio, Dura ha agito in modo totalmente autonomo all’insaputa sia della direzione strategica, sia dei suoi compagni in questa azione. Franceschini è di diversa opinione, sostiene infatti che partirono due ordini diversi: uno per il ferimento dalla direzione strategica e un accordo separato tra Dura e Moretti per l’omicidio, infatti Dura all’epoca era il braccio destro di Moretti. Concludendo, nonostante gli assassini di Guido Rossa siano stati individuati e condannati ci sono ancora molti misteri attorno a questo delitto e alla storia delle BR più in generale.





mercoledì 23 gennaio 2019

Roberto Franceschi




Roberto Franceschi frequenta il secondo anno di Economia politica all’università Bocconi e quel martedì 23 gennaio 1973 è prevista una assemblea del movimento studentesco nel suo ateneo. E’ stato proprio Roberto il giorno prima a compilare e consegnare la richiesta. Il rettore Giordano Dell’amore autorizza l’assemblea a condizione che non sia consentito l’ingresso a studenti di altri atenei né agli operai. Poco prima delle 21 Roberto si trova vicino all’ingresso del Pensionato Bocconi  e vede i 100 poliziotti schierati in assetto di guerra all’angolo tra via Sarfatti e via Bocconi. E’ stato il rettore ad avvisare la polizia dell’assemblea senza che apparentemente ci fosse un pericolo contingente, la tensione tra i ragazzi cresce sempre di più e Sergio Cusani dopo una concitata telefonata al rettore, alle 22.15 circa decide di avvisare tramite un cartello che la riunione è rinviata a data da destinarsi. Alle 22.30 gli studenti iniziano ad allontanarsi e alle 22.45 quelli rimasti attaccano i poliziotti con urla e lancio di sassi. Le forze dell’ordine reagiscono immediatamente  rincorrendo i ragazzi in fuga e si cominciano a sentire numerosi spari. Roberto Franceschi viene colpito alla nuca e cade a terra, Roberto Piacentini viene ferito alla schiena e un terzo proiettile colpisce la portiera di una 500 blu parcheggiata in via Bocconi. I familiari di Roberto vengono a sapere di quanto accaduto all’una di notte, dopo essere rientrati nella casa di Via Emilio De Marchi 8, grazie ad una telefonata fatta da Francesco Fenghi un amico del figlio e si recano subito al Policlinico. Il ragazzo entra rapidamente in coma profondo e viene trasferito in rianimazione dove rimane fino al giorno della morte avvenuta il 30 gennaio 1973. Dopo la cerimonia funerale civile la famiglia si cere al cimitero di Dorga per la tumulazione. Il vicequestore Tommaso Paolella afferma che gli studenti lanciarono cubetti di porfido e due bottiglie incendiarie, una delle quali colpì il telone della campagnola del Tenente Addante. Il questore Allitto Bonanno conferma che l’autista della campagnola Gianni Gallo sparò due colpi dopo essere sceso dalla campagnola con il tetto in fiamme.  L’avvocato dello Stato Marcello Della Valle residente al quarto piano di un palazzo all’angolo tra via Sarfatti e via Bocconi, alle 22.45 testimonia di aver visto una persona in borghese con un cappotto grigio a capo scoperto, sparare quattro o cinque colpi in direzione degli studenti in fuga. Italo Di Silvio, bancario residente al secondo piano dello stesso palazzo vede un uomo vicino al semaforo tra via Sarfatti  e via Bocconi sparare contro la folla. L’ultimo testimone di questa drammatica notte è Roberto Piacentini, vede un uomo in divisa grigioverde che spara due colpi e uno con un cappotto blu compiere lo stesso gesto. L’inchiesta per l’omicidio e il ferimento di Roberto Franceschi e Roberto Piacentini viene affidata prima ad Antonio Pivotti e poi a Elio Vaccari che da subito si rende conto che le armi consegnate per la perizia balistica sono state manomesse, forse proprio per questa ragione viene estromesso dalle indagini avocate dal Procuratore Capo Giuseppe Micale. Finalmente ha inizio il processo e alcuni documenti fotografici dimostrano che la campagnola non è stata mai raggiunta dalla bottiglia incendiaria che risulta essere caduta a terra a poca distanza. Gallo è evidente dalle immagini che ha partecipato alle operazione di spegnimento utilizzando tra l’altro il proprio berretto. La perizia balistica ha accertato che le pallottole che hanno colpito i due ragazzi e la 500 provengono tutte dalla stessa arma: la pistola 7,65 in dotazione a Gallo. Sempre in quella notte si è potuto accertare che abbiano certamente sparato anche il Vicequestore Paolella, l’appuntato Cosentino, l’appuntato Vittorio Di Stefano e Agatino Puglisi. Dopo gli spari nella pistola di Gallo sono state inserite nel caricatore 2 o 3 cartucce. Dopo un iter giudiziario lunghissimo il 22 aprile 1985 tutti gli imputati sono stati assolti. Nella foto il monumento che ricorda i fatti avvenuti presso l'università Bocconi di Milano 

lunedì 21 gennaio 2019

GDL dicembre 2018



La settimana scorsa si è svolto l'incontro del mio gruppo di lettura e ci siamo confrontati su "Fair play" di Tove Jansson. Questo breve testo, parzialmente autobiografico, racconta uno stralcio della vita quotidiana di Mari e Jonna, due donne finlandesi di mezza età compagne nella vita da molti anni. Jonna è una scultrice mentre Mari è un’illustratrice, le due donne vivono nello stesso condominio, ma in due appartamenti distinti e i loro atelier sono contigui. E’ evidente da subito l’importanza che entrambe attribuiscono alla propria indipendenza, il rispetto assoluto degli spazi individuali nei quali dare sfogo all’urgenza creativa pur mantenendo sempre solido il loro equilibrio come coppia. Le due donne convivono solamente quando si recano su una piccola isola nel mare tra la Finlandia e l’Estonia dove hanno una piccola casa nella quale ospitano, in un episodio narrato nel libro, un burattinaio russo amico di Mari e una donna alla ricerca della propria identità. Nel romanzo non ci sono grandi colpi di scena, ma la descrizione di piccoli eventi quotidiani, uno sguardo sulle passioni che scandiscono la quotidianità di Jonna: l’intaglio del legno, i film western e l’attore Michael Fassbinder, le riprese effettuate con l’amata cinepresa Konika durante i viaggi con la compagna. A mio parere più che di un romanzo questo volume potrebbe essere definito una raccolta di racconti, con un comune denominatore: Jonna e Mari, la loro capacità di rinnovarsi e rinnovare il loro amore guardando ogni giornata, anche la più banale con occhi sempre curiosi.


giovedì 17 gennaio 2019

Viaggiare in giallo




L’unico difetto che posso imputare a questa raccolta è la brevità, infatti avrei apprezzato che ogni autore avesse avuto a disposizione maggiore spazio per sviluppare in modo più compiuto ogni trama. Quasi tutti i racconti non sono prettamente gialli classici, ma hanno una buona dose ironia e humor. Ho particolarmente apprezzato Malvaldi con i suoi vecchietti del Bar Lume, Robecchi con il suo investigatore per caso e Recami sono stati una piacevolissima sorpresa, due autori che voglio assolutamente approfondire, idem Manzini che conoscevo solo per la trasposizione televisiva delle storie del suo vice questore Rocco Schiavone. Purtroppo una certezza in negativo per me è la Giménez-Bartlett di cui avevo già letto in passato e che detesto cordialmente.


Questo libro risponde all’indizio n. 1 della Reading challenge “Un libro che contiene più racconti di autori differenti”

In viaggio con Albert





L’autore di questo romanzo Hickam Homer jr. è il figlio dei due protagonisti dei quali narra le vicende di gioventù. Elsie dopo il diploma si innamora dell’attore Buddy Ebsen e fugge con lui ad Orlando in Florida, quando quest’ultimo si trasferisce a New York in cerca di fortuna Elsie torna nel West Virginia e rassegnata sposa il suo compagno di liceo Homer. Buddy invia come dono di nozze ai due un alligatore che Elsie chiamerà Albert e sarà oggetto dell’amore incondizionato della donna. Dopo molti anni di convivenza forzata con l’animale Homer impone alla moglie un ultimatum “o me o Albert” Elsie decide allora di partire con Homer per riportare l’alligatore in Florida da qui prende vita il racconto poetico e straordinario del viaggio di questa strana famiglia attraverso gli Stati Uniti nel periodo della grande depressione. Homer durante queste settimane farà di tutto per conquistare l’amore di Elsie che, solo quando sarà sul punto di perdere il marito, gli dichiarerà il suo amore. I due vengono coinvolti spesso loro malgrado in mirabolanti avventure quali una rapina in banca, una protesta di operai, un naufragio e un uragano. Durante il percorso faranno incontri eccezionali quali gli scrittori Hemingway e Steinbeck e ritroveranno il senso della loro vita. Ho molto amato questo libro ed è stato una piacevolissima sorpresa anche perchè l’ho acquistato senza saperne nulla, solo perchè attratta dalla copertina. L’autore è il figlio dei due protagonisti e ne narra l’avventurosa esistenza con affetto e molta ironia, con la famiglia Hickam si ride, si piange e si riflette vi consiglio assolutamente questa lettura!


Questo libro risponde all’indizio n. 3 della Reading challenge “Un libro acquistato d’impulso”